In fondo, la sterminata carriera cinematografica di Clint Eastwood è riassunta da un fotogramma.
Il film è “Nel centro del mirino” di Wolfgang Petersen, 1993: Clint corre, visibilmente stanco, appoggiandosi a un’automobile.
Una piccola bandiera americana campeggia sulla locandina, e racconta tutto: emblema di un sogno libertario andato in frantumi, eppure ancora vivo.
Ontologicamente statunitense e repubblicano, ma liberale, l’attore ha incarnato, nella sua filmografia che copre l’arco di settant’anni, tutto ciò che un americano può essere : uomo di frontiera, detective, ristretto in un penitenziario da incubo, protagonista di storie scomode, reduce di guerra, antieroe fallito e persino un allenatore di boxe insospettabilmente femminista.
Sì, femminista e persino progressista, perché nessun attore o regista ha mai subito così tanti pregiudizi, uno dopo l’altro caduti miseramente: ma di tempo, prima che Clint si sedesse sull’Olimpo dei grandi, ne è trascorso, eccome.
La colpa, forse, fu di Sergio Leone che, anziché celebrane il talento ( addirittura “imbarazzante nella sua grandezza”, dicono gli interpreti e i registi che hanno lavorato con lui) affermò: “Mi piace perché ha solo due espressioni: una con il cappello e l’altra senza cappello”.
Poco male, per un attore senza il quale è difficile immaginare l’epopea western al cinema, emblema di una nazione in costruzione tra bagni di sangue e machismo da cowboy.
Sempre con la pistola in mano, bellezza inarrivabile, nel deserto, a cavallo, labbra sottili e sguardo tagliente, Clint è diventato nel tempo l’ispettore Callaghan “Dirty Harry” : un ruolo da “carogna” che gli regala una popolarità planetaria e che gli rimarrà per sempre cucito addosso come una seconda pelle.
Sullo sfondo, la sua San Francisco, la città dove è nato il 31 maggio del 1930.
Novantaquattro monumentali anni per un mito assoluto che sarà ricordato come il più grande regista di tutti i tempi, e come un attore che alla settima arte ha dato tutto di sé, senza infingimenti e filtri.
E ciò, malgrado la sua immagine sul grande schermo, per sua stessa ammissione, poco se non nulla ha da spartire con il suo tratto umano: sostenitore della National Rifle Association sì, ma convinto animalista e irrisore dei cacciatori (“Non mi pare che sparare a un animale sia un gesto degno di un essere evoluto”, ha affermato), conservatore sì ma sorprendentemente liberale in tema di diritti civili, aborto ed eutanasia.
La politica lo ha sempre interessato: è stato sindaco di Carmel by the Sea, in California e, quando si trattava di prendere posizione, non si è mai tirato indietro: tutti ricordano la famosa sedia vuota con cui indicò, nel 2012, le falle dell’amministrazione targata Barack Obama.
Snocciolare titoli e premi, per un attore come Clint Eastwood entrato nella leggenda più che altro in qualità di regista inventore di uno stile preciso e irreplicabile, non ha senso.
Però, nel giorno del suo novantaquattresimo compleanno, forse vale la pena di dire che, senza “Gran Torino”, il film migliore in assoluto da lui diretto e interpretato, la storia del cinema di tutte le latitudini non sarebbe stata la stessa.
“Cry macho” è la sua ultima pellicola: il mito consegna alla storia ciò che è stato, ma non ci sarà alcun erede a raccoglierne il testimone.
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